LE NOSTRE RECENSIONI


Incontro con l'autore: Chiara Marchelli


Sono trascorsi molti mesi dall' incontro con Chiara Marchelli a Milano ed anche se con immenso ritardo pubblichiamo l’intervista per la presentazione del libro “Le Notti Blu”

Le notti blu sono, in sé, delle notti insonni. Ma sono tutto ciò che rimane a Michele, stimato professore universitario di mezza età, del figlio Mirko, suicidatosi per depressione. Michele accarezza con nostalgia quei momenti di condivisione notturna, ed elabora analiticamente e ripetutamente ricordi di immagini e dialoghi con il figlio, alla ricerca di un indizio, una legge teorica, una regola universale che possa dare una spiegazione, ossessionato dalla necessità di inquadrare situazioni e comportamenti in una spiegazione logica e razionale. L’arrivo di una lettera da una donna sconosciuta scuoterà nuovamente la sua esistenza, ormai di pallida rassegnazione e di nostalgia, e quella della moglie Larissa, gettando nuove luci e ombre su ciò che la coppia sapeva - o pensava di sapere – di Mirko.

In punta di piedi, l’autrice accompagna e guida il lettore ad assistere in silenzio, senza giudizi, né sbavature, al dolore di una coppia di genitori rimasta orfana del proprio figlio.

Chiara Marchelli , oltre che una scrittrice di talento - Le Notti Blu è tra i 12 candidati per il Premio Strega 2017 - è una donna sorprendente, dallo sguardo luminoso e dal sorriso contagioso. Ci rivolge la parola in modo cordiale, ascolta con attenzione ogni impressione ed instaura con noi blogger un dialogo aperto, in cui l’intervista, partendo dalle vicende del libro e dai personaggi, si mescola indissolubilmente a riflessioni e ricordi, per poi spaziare su curiosità stilistiche, temi filosofici e attualità.

La location è questa volta la Libreria Verso di Milano, ci accomodiamo in cerchio in una stanza piccola ma accogliente, circondati di libri e colori per bambini. Con noi c’è Francesca Rodella, della casa editrice Perrone.

Dopo l’introduzione di Francesca, l’autrice ci saluta, ci ringrazia con un caldo sorriso ed esordisce con un complimento ad una felpa a tema cioccolato, sorprendendoci piacevolmente per la sua spontaneità, e creando fin da subito un clima disteso e rilassato.

Cosa l’ha portata a scegliere di raccontare questa situazione famigliare difficile?
Le storie che scriviamo sono storie che ci sfiorano o ci toccano. Non è una storia autobiografica, non sono una madre, ho un fratello che è vivo.. Però mi ha ispirata da vicino ed è successo a persone molto care, e mi è rimasta dentro. Come spesso succede, se una cosa del genere rimane dentro e sedimenta, qualcosa ne devo fare.. il mio strumento è la scrittura, dopo un certo periodo è tornata in superficie, e ho dovuto scriverne, senza pensare troppo a quello che stavo facendo.

Ciò che colpisce subito per il tipo di tematica trattato è l’atmosfera di sospensione, che pervade e spinge il lettore a scoprire cosa c’è dietro, qual è il dramma, ma nello stesso tempo ci si sente sospesi in piccoli riti. Il senso di sospensione è voluto o è venuto scrivendo?
Il senso di sospensione è venuto scrivendo, forse volevo mantenere una certa discrezione nei confronti di una storia del genere. Avendo molto rispetto per un dolore di questo tipo, non volendo sciacallare, non volendo fare del facile sentimentalismo, uno dei punti fondamentali che ho affrontato anche attraverso la scelta del linguaggio è stato quello di conservare una distanza, di modo che la storia parlasse da sé, fosse poco “comunicata” attraverso aggettivi, fosse poco definita. Ho cercato di mettere gli eventi nel modo più oggettivo possibile, guardandoli come attraverso un buco.

Mi è piaciuto molto come hai assimilato la teoria dei giochi all’interno della narrazione: Michele tenta di giustificare tutto il dolore basandosi su delle formule.

Tutti noi cerchiamo di contenere dentro ciò che conosciamo ciò che ci spaventa e ci addolora, ciò che non capiamo. Abbiamo bisogno di riferimenti. Michele è un uomo abituato, come gli studiosi, a cacciarsi dentro alle regole. Diventa la priorità della sua vita, trovare una regola secondo cui gestire un dolore che altrimenti non riuscirebbe a gestire. Poi da una parte trova una conferma - c’è la scoperta fortunatissima, dal punto di vista narrativo, di adesione tra teoria dei giochi e suicidio, di cui non sapevo all’inizio delle ricerche -, poi però capisce che non c’è risposta nella teoria dei giochi e negli studi che fa. Allora c’è una rottura, ma là dove si rompe, entra la luce, è allora che fa una scelta di rinascita, di ritorno in superficie.

Il modo con cui ha trattato il dolore è molto bello. E’ più difficile descrivere il dolore che una bella storia d’amore. Ho avvertito una sorta di quiete molto strana, mi sono sentita accompagnata verso la sofferenza, che è il bello di questo libro. In che modo si approccia di solito per poter trasmettere il dolore al lettore?

Io non sono capace a scrivere di felicità.. non sono capace a renderla interessante. E’ più facile perché c’è meno sofferenza, meno sforzo, meno lavoro, ma io divento banale.. Penso che dal punto di vista artistico, la sofferenza è molto più interessante, è in essa che c’è il cambiamento. La felicità non è uno stato, ma è un momento, non dura mai più di tanto. Non la trovo interessante, narrativamente parlando non c’è niente di mosso, di dinamico che mi interessi. All’inizio di Anna Karenina è così, tutte le famiglie sono felici allo stesso modo, invece nella sofferenza sono tutti differenti. E’ lì che vado a cercare quello che mi interessa, cosa che ho sempre fatto inconsapevolmente, finché uno scrittore mi fece notare – 15 anni fa - che nei miei romanzi metto sempre la morte. (Ride) Non l’avevo notato, per me la vita è la morte. Il rapporto tra la vita e la morte è l’essenza del mio lavoro, inizio e fine, e in mezzo c’è tutto quanto.

Rispetto ai personaggi, li descrivi attraverso ciò che dicono, che fanno. Mirko è un personaggio particolare, con passione per la geologia, ti sei ispirata a una persona che conosci? Come hai costruito i personaggi?

I personaggi si costruiscono allo stesso modo nella mia testa, a meno che non abbia in mente qualcuno di particolare. Per questi personaggi attingi a quello che ti circonda. Per essere un buon scrittore occorre essere un eccellente osservatore e ascoltatore, notare le cose, capire le persone. Se no, scrivi di te, ma è un altro lavoro. Michele, Larissa, Mirko, non sono assemblaggi, sono delle persone nate così, che poi ho nutrito man mano che li conoscevo io stessa. Dacia Maraini dice che i personaggi ad un certo punto prendono una loro forma, un loro carattere, guai ad andare contro la loro personalità, o non viene fuori nulla. Ed è vero, hanno davvero una loro personalità, li abbiamo studiati e tenuti in testa per talmente tanto tempo, inconsapevolmente sono già pronti da inserire nella storia. Ti si svelano piano piano. Poi magari c’è qualcosa che ti colpisce, io non ho molta immaginazione, c’è magari il particolare di un gesto, colore, o un’abitudine che ho preso dalla vita intorno a me, come penso accade in qualsiasi opera di narrativa.

I personaggi sono molto veri, resi molto reali da ciò che dicono e ciò che fanno. La condizione di sospensione e l’atmosfera vengono percepite più attraverso il silenzio e tranquillità, piuttosto che in maniera descrittiva.

Credo che sia la regola fondamentale del narrare, mostrare invece di dire, la regola d’oro della scuola americana. Mi piace moltissimo ascoltare le persone e sentire come si esprimono. La parola è lo strumento che usiamo per parlare nel mondo. A volte il rischio è far parlare tutti nello stesso modo, soprattutto se sono persone della stessa età che vivono insieme da sempre.. la tentazione è di riprodurre la stessa voce, ma a me piace il dialogo, mi piace leggerlo, leggere un dialogo fatto bene. Quando hai in mente un personaggio con chiarezza, lo fai anche parlare con specificità. Non generalizzi, non sovrapponi.. e fino a quando non ho esattamente in testa il personaggio e la storia, è impossibile che mi metta a scrivere. Le tengo tanto dentro le storie, prima di metterle sulle mie pagine.

Quindi è faticoso per te creare un libro? O ti viene facile?

Questo libro è stato molto faticoso. Poi dipende da cosa scrivi. Ci sono storie più facili da scrivere, non necessariamente perché meno dolorose. Per esempio, l’Amore Involontario, il terzultimo libro uscito, è una storia a me molto vicina. Parla di un fratello e una sorella, e c’è molto di mio fratello in quella storia. E’ stato più doloroso, ma più facile, perché sono i ricordi di quando noi eravamo piccoli, ci sono degli aspetti della sua personalità che ho perfettamente chiari in testa, poi il meccanismo è stato inserito in una storia che non è la nostra. Questo mi è costato più fatica, proprio perché non è la mia storia, e per un fatto di misura.. e poi io ho sofferto molto. Lo dicevo anche alla presentazione di un anno fa, quando già ero a metà, continuavo a dire E’ una fatica, è una fatica!, così è stato fino all’ultimo.
Ci si augura, lavorando, di andare in avanti, non di star fermo o tornare indietro.. arriverò magari al momento in cui vorrò tornare indietro, mi fa piacere che, per quanto riguarda il mio metodo di lavoro, mi pare di aver fatto un pezzettino oltre rispetto a prima, mi sono mossa in territorio che ogni volta diventa nuovo.

Come ti sei sentita quando hai messo la parola fine al tuo libro?

Il libro sai benissimo quando sta finendo, prima di finirlo, ci sono giorni in cui ti dici oggi lo finisco, ti si annuncia. Sei come preparato. Un po’ è un sollievo, un po’ no, perché io adoro la routine della scrittura. Mi piace moltissimo svegliarmi la mattina, scrivere per un sacco di tempo nel tempo libero, come ognuno di noi ama fare quello che ci piace, senza accorgerci del tempo che passa. Per me, questo è la scrittura. Quando ho finito questo, penso sia la stessa cosa.. era finita quell’esperienza. Poi, in realtà il libro non è mai finito, tanto per cominciare devi riscrivere l’inizio, perché ti accorgi che non va più bene, poi va riscritta la fine, e poi va riscritto il mezzo. Però sì, quando è finita la prima stesura è un carico che ti togli di dosso, piacevole e spiacevole.

Per quanto riguarda la teoria dei giochi, mi incuriosiva il gioco non cooperativo nei confronti della vita.

Faccio una premessa, sono laureata in arabo, insegno italiano, e sono scrittrice. Di teoria dei giochi non sapevo niente. Ho studiato, prima di scrivere questo libro ho fatto ricerche, poi finito il libro ho dimenticato. Il gioco non cooperativo mi serve come metafora. La vita non coopera con noi.. Puoi pianificare, impegnarti, vivere una vita normale di felicità e dolori, e poi ti succede una cosa che non ti permette mai più di trovare un tuo equilibrio. Anche a questo è servita la teoria dei giochi. Noi aspiriamo a vivere in equilibrio, poi dipende anche dall’età, Michele e Larissa non aspirano più a nulla, se non ad arrivare fino alla fine della giornata. Mirko ha fatto saltare ogni regola, perché non era neanche annunciato. Un conto, non meno doloroso, è quando c’è una malattia definita e dichiarata in casa, un altro è quando tu non lo sospetti. In quello che ho voluto immaginare per questa storia, è il fatto che non hai più il giro della vita, non la capisci più.

E i tuoi influssi americani? Quanto ha influito la letteratura americana?

Nello stile di sicuro, quello che mi piace di tanta letteratura anglosassone in genere, e di certa letteratura francese, è lo stile essenziale, che trovo restituisca o racconti meglio una storia rispetto ad uno stile più barocco, più raccontato, più fiorito. Le storie no, perché io vivo negli Stati Uniti, ma non posso raccontare una storia americana, perché non sono nata lì. Ormai New York è la mia città e ci abito da quasi 20 anni, la conosco, non faccio turismo narrativo quando parlo di New York, ma sono italiana e devo sempre mettere insieme le due identità, i due linguaggi, perciò se gli americani mi hanno influenzata, lo hanno fatto non nelle tematiche, ma nello stile sicuramente sì, penso anche ad alcune autrici americane, per esempio la newyorkese Jennifer Egan, o Trish Holmes, loro mi piacciono molto. Le trovo al punto, non sono sdolcinate, lo stile dolciastro non lo sopporto, mi annoio.

Tu credi che il tempo non possa guarire le sofferenze? La perdita per i genitori di Mirko è difficile perché sono arrivati ad una certa età, ma per la moglie Caterina.. credi che anche per lei possa essere veramente difficile?

Difficile sì, impossibile no. Non penso che il tempo non possa guarire le sofferenze. In questa specifica storia, il tempo non può nulla contro la sofferenza di Michele e Larissa, anche perché sono raggiunti da questa tragedia tardi nella vita. Con cosa puoi sostituire il suicidio di un figlio, con quale altra gioia, se non l’arrivo possibile di questo bambino? Michele decide di fare una cosa rivoluzionaria, tanto che sacrifica la sua unione e l’armonia di quell’istante con la moglie, con cui ha fatto tutt’uno quando Mirko è morto. Per Caterina, apposta faccio dire a Michele “E’ giovane, chissà se ha un altro, chissà se nel frattempo si è rifatta una vita”. C’è il sospeso, ma io per Caterina ho buone speranze! Le persone vengono fuori da lutti di questo tipo. Mi viene in mente un mia conoscente di Aosta, che a 30 anni ha perso il marito in un incidente di montagna, ma dopo qualche anno si è risposata felicemente. In quegli anni era però senza prospettiva. Se sei giovane anche le occasioni sono maggiori, puoi viaggiare, puoi cambiare lavoro.. a 65-70 anni se perdi un figlio hai impossibilità a sostituirlo. Perdi non solo il figlio, ma anche la condizione di genitore. Da questo spunto parte una riflessione di gruppo sul fatto di perdere un figlio, dal punto di vista di un genitore. Francesca si unisce alla discussione. Lavorando sul libro di Chiara ha fatto una ricerca sulla terminologia. Se un figlio perde i genitori è orfano, se moglie perde il marito è vedova, ma non c’è una parola che definisce un genitore che perde un figlio. Si tratta di un concetto inesprimibile, e la ricerca di un termine non ha dato risultati, in quanto non esiste in nessuna lingua.

Una curiosità: chi è il tuo primo lettore?

E’ Andrea Cecchi, che ringrazio in tutti i miei libri, è una persona estremamente importante per me, siamo stati insieme qualche anno, anni fa. Ora non è né amico ne ex fidanzato, è.. Andrea. E’ una persona che mi accompagna ancora pur non essendo il mio fidanzato. E’ un creativo straordinario e mi stimola molto.

Quando gli hai presentato questa idea, come ha reagito?

In realtà, in quel primo stadio, non dico nulla a nessuno. E’ come carta velina, non lo espongo all’aria per non farlo sbriciolare. Ultimamente, da una parte mi fido più di me, dall’altra sto provando a fare una cosa diversa. Allora mentre mi veniva l’idea gliene ho parlato e mi ha incoraggiata a provare. Poi cammin facendo, se secondo lui ci sono delle scemenze, non si fa problemi a dirmelo. Voglio sapere la sua opinione, però quando sono all’inizio è una cosa talmente intima che rischia di diventare una dipendenza, poi ho bisogno che lui mi approvi tutto.. invece no, sei da sola a scrivere, ed è giusto che sia così.

Ti è mai capitato che tu gli proponessi un’ idea già in avanzamento nella tua testa, e lui dicesse “No, è brutto”?

Ma no, non credo che nella sua concezione delle cose, né nella mia, ci siano idee cattive, dipende da come racconti le cose.. Un giorno potrebbe venirmi in mente di raccontare una storia d’amore. Ho già scritto un libro su una storia d’amore, però.. Il libro che lui ha apprezzato meno è quello prima di questo, che è una storia d’amore tra due donne. Lui non era tanto interessato alla cosa. Era nato come una storia d’amore tra uomo e donna, e poi strada facendo l’ho cambiato, perché per le personalità mi sembrava fosse meglio. Secondo lui era meglio prima. Ma a quel punto era già pubblicato, all’agente di allora era piaciuto ma alla fine aveva ragione Andrea. Forse sarei tornata indietro, alla gente piaceva così, io ero in un momento di incertezza, dopo quel libro ho cambiato agente, non ci trovavamo più già allora, ma io non me n’ero accorta. Adesso mi fido più del mio istinto, ma anche delle persone a cui faccio leggere le mie cose

Adesso stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Sì, la stesura è finita, ma ci devo tornare, capire se funziona, vediamo. Siamo ancora in fase delicata.

Sempre incentrato su vicende tragiche?

Secondo te?! (ride) In realtà è diverso, cioè, c’è la morte, perché la morte è nella vita, ma ha un tono diverso. E’ scritto in prima persona, ed è dal punto di vista di una donna, altra cosa che non ho fatto mai. Ho ribaltato un pochino i giochi. Vediamo cosa ne sarà.

E’ stato difficile scrivere dal punto di vista di un uomo?

No, ho più facilità a parlare dal punto di vista di un uomo, da sempre. Tutti i romanzi sono con protagonisti maschili, tranne questo nuovo. Credo di avere un lato maschile, o un’empatia o una conoscenza che mi permettono di scrivere in modo che non mi sembra sciocco, che non mi sembra fatto di luoghi comuni. A una presentazione de L’Amore Involontario, di cui parlavo prima, che ha il punto di vista del fratello, un signore di 60 anni mi chiese chi mi avesse consigliato. Nessuno me lo diceva. Evidentemente ho una personalità che va a toccare caratteristiche maschili. Ho provato a scrivere dal punto di vista di una donna, ma facevo troppo riferimento all’ esperienza personale, venivano fuori delle porcherie, non convincenti, mi annoiavo. Io scrivo per uscire da me, per inventare e vivere un mondo parallelo, quindi forse l’identificazione verrebbe naturale. Nel nuovo progetto non sta accadendo, perché si tratta di una donna più grande di me, riesco a fare lo scarto.

E’ stato difficile scrivere dal punto di vista di una persona anziana, come è entrata nella psicologia di una persona anziana?

Sì, è stato faticoso, ma penso che siamo soprattutto esseri umani. Non avrei potuto scrivere quella storia 15 anni fa di sicuro, ma ci sono certi meccanismi che sono umani, quindi certe gioie, certi dolori sono condivisibili da tutti i generi e tutti i tempi.. Poi devi avere in mente cosa stai facendo, chi sta parlando, dove sta, da dove arriva.. Devi aver assolutamente presente l’ identità del personaggio e il posto dove sta. Se io non li ho in testa perfettamente chiari, non comincio a scrivere. Poi, penso sia possibile fare questo genere di operazione se sei uno scrittore “vero”, che osserva la realtà, penetra la realtà attraverso l’ascolto e l’osservazione, cerca di scavarla, comprenderla, restituirla, esplorarla, e quindi non soltanto dal suo punto di vista. Diventa lo strumento di quello che gli sta intorno, e dentro, che è universale. Secondo me tutte le arti servono a questo, ad avvicinare, comprendere, masticare la vita – quindi, difficile lo è, perché esci da te. E’ anche vero che io non ho 68 anni ma ne ho quasi 45, ho visto e osservato tanto la vita, ho passato tanto tempo, soprattutto la mia giovinezza con gli anziani, non di questa età, molto più anziani, sono sempre stata curiosa di età diverse dalla mia.

L’intervista si conclude con una domanda di attualità, rispetto a come, da italiana, Chiara sta vivendo la presidenza Trump. Ci confida a cuore aperto di far parte di coloro che si sono attivati nell’ambito delle associazioni di resistenza civile.

Un saluto finale, una foto insieme, ed un grandissimo Congratulazioni a questa autrice che, con un sorriso e tanto, tanto lavoro, ha raggiunto la fase finale del Premio Strega. Dita incrociate per te, forza Chiara!!



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