RECENSIONE: LA CENA DEI COSCRITTI DI MICHELE MARZIANI
Prezzo: 16,00 € | Ebook: 9,99 € |
Pino, Joško e Gino, tre inseparabili amici classe 1942, inerpicati a Riva Cannobbia, paese immaginario della Valsesia, resistono fisicamente e moralmente a chi li vorrebbe anziani, inutili e fragili, senza invece rassegnarsi al tempo che passa. La valle si è spopolata di abitanti, risorse e servizi, tutto cambia, la montagna non è più quella della loro gioventù, di pescatori, falegnami e pastori, adesso la montagna è dei turisti, di chi si lascia abbindolare dai prodotti tipici e snobba quelli nostrani, e si inseguono la modernità e l’innovazione. Sarà però il progetto di costruzione della diga in nome del progresso a unirli ancora di più in una protesta che se inizialmente goliardica e nata per passare il tempo e ingannare noia e solitudine si trasformerà in lotta seria e farà vacillare più di un equilibrio.
Narrato in prima persona da Pietro Capaldi, per gli amici Pino, con uno stile colloquiale e impreciso che fa tenerezza, anche se diretto e pulito.
Scorrevole, procede lento tra ricordi e
acciacchi, tra voglie e memoria, sulla groppa di una vecchiaia che preme per
essere riconosciuta. La narrazione è infatti un fiume in piena di ricordi, pensieri,
idee e pareri, espressi senza girarci troppo attorno, col lusso della verità
che solo alle due estremità della vita ci si può permettere.
Lo stile è ironico e divertente, colloquiale e
non manca un po’ di turpiloquio ben dosato che però non dà fastidio, tanto che
a volte sembra di ascoltare il racconto di un vecchio parente un po’
confusionario che si distrae mentre racconta passando di palo in frasca: tuttavia
questo non disturba, anzi, riporta indietro a quella tradizione orale tipica
delle serate in famiglia. I ricordi sono afferrati senza un filo logico, oppure
trascinati l’uno dall’altro per un particolare che li lega e richiama alla
memoria il successivo. Ma è anche profondo, riflessivo, romantico, commovente e
con un’eco poetica e musicale.
Pino racconta di sé e della sua vita, della
sua famiglia, degli amici, con affetto, amarezza, delusione o amore, si atteggia
a duro e non vuole cedere, ma la paura della vecchiaia incombe e si percepisce,
insieme e nostalgia e malinconia, ai rimpianti e all’inquietudine per il tempo
che passa e non si guarda indietro e impone di farci i conti e di prenderne
consapevolezza.
I personaggi si fanno amare e diventano vivi, quasi
non vuoi abbandonarli.
La diga, poi, è solo un pretesto, uno
strumento che servirà ai personaggi per riflettere e capire molte cose, quella
scossa che minerà molte certezze e altrettanti equilibri.
Due parole merita anche il finale, un po’
strano e spiazzante, si amalgama male col resto del romanzo, con quale ha una netta
soluzione di continuità ed è difficile da comprendere nell’immediato: bisogna
proseguire qualche pagina per capire dove l’autore voglia andare a parare.
Onestamente mi ha lasciata un po’ perplessa, ma non per questo delusa.
“Non ne ho voglia. Questa è la verità. Questo significa
essere vecchio: non avere più voglia.”
Per chi non lo sapesse, “coscritti” è la parola che in dialetto piemontese si usa per indicare chi è nato nello stesso anno, ed è usanza, purtroppo un po’ decaduta e soprattutto dei piccoli paesi, festeggiare annualmente “la leva” a partire da quando si diventa maggiorenni, con i “coscritti”, ogni anno sempre un po’ più vecchi.
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