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Recensione: Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson

IO NON MI CHIAMO MIRIAM.


Io non mi chiamo Miriam
di Majgull Axelsson

Prezzo: € 19,50 | Ebook: € 9,99
Pagine: 562 | Genere: Narrativa
Editore: Iperborea | Data di pubblicazione: 29 Settembre 2016

TRAMA
"Io non mi chiamo Miriam", dice di colpo un'elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant'anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l'Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d'Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l'"altro" interrogandosi sull'identità - etnica, culturale, ma soprattutto personale - e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all'erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno.

IL MIO PENSIERO SUL LIBRO.

Memoria. Una delle numerose capacità dell’essere umano di ricordare eventi avvenuti nel passato di cui egli ha avuto o meno esperienza diretta. Spesso utilizzata nell’ambiente scolastico, in essa può e deve risiedere almeno una piccola parte della coscienza umana, di quella moralità che, facendoci ripercorrere i nostri passi, ne provoca inevitabilmente apprezzamento o disgusto, insegnandoci come anche dalle cattive azioni si possa, a suo modo, trarne un importante e talvolta essenziale ammonimento. Perché, allora, sempre di più negli ultimi anni il mondo intero si sta dimostrando incapace nell’onorare le gesta e le vite che da decenni portano le cicatrici di una meschinità ingiustificabile? Perché si è tornati a sentire la necessità di denigrare ed etichettare come sbagliato chi semplicemente non è la nostra copia perfetta? Com’è potuta riemergere con così tanta forza la paura del diverso?

Ho provato, invano, a cercare una risposta il più logica possibile a tutte queste domande, trovando però sul mio cammino storie e testimonianze in grado, più di ogni altra parola superflua, di sottolineare la brutalità di cui ogni essere umano può rendersi capace, senza ricadere mai, neppure per una volta, in quel torbido sentimento che ha fatto di quelle voci innocenti pericolose vittime da eliminare: l’odio. E una di queste è giunta a me direttamente dalla Svezia: con Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson ha permesso alla memoria di rimanere vivida e pulsante in un tempo in cui la stessa sembra stia dissolvendosi nello spazio eterno, ricordandoci con estrema lucidità ciò che è avvenuto e ciò che non dovrà mai più accadere. 

Il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno Miriam non potrà mai dimenticarlo, ricordandolo sempre come il momento esatto della sua vita in cui la verità celata da lei stessa al mondo intero ha scalpitato, impaziente, per essere finalmente rivelata. “Io non mi chiamo Miriam”, ha mormorato. Cosa avrà voluto dire la signora Adolfsson con quelle cinque parole sussurrate mestamente alla vista del regalo donatole dalla sua famiglia, un bracciale con inciso proprio il suo nome? Per settant’anni Miriam ha mentito, nascondendo la propria identità a chiunque le chiedesse chi fosse. Settant’anni fa Miriam Goldberg, quella vera, perse la vita durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbruck e Malika, una ragazzina terrorizzata all’idea di morire e confondersi tra le cataste di corpi abbandonati paradossalmente a se stessi, ne acquisì le generalità, lasciandosi trasportare dalle conseguenze di un gesto tanto disperato per quello che sarebbe stato il resto della sua esistenza. Adesso, però, Malika percepisce l’urgenza di tornare ad essere se stessa, di poter parlare liberamente la propria lingua, vivere il suo credo, indossare le sue vesti, omaggiare le proprie tradizioni e abbandonarsi al pianto per quella famiglia che ha sempre abitato i suoi ricordi. Eppure, a distanza di anni, a prevalere è ancora la paura, il terrore che essere diverso possa provocare negli altri reazioni violente, incontrollabili, del tutto irrazionali. Perché raccontare la verità se non si appartiene alla giusta razza può diventare pericoloso.


È una narrazione particolarmente intimistica, delicata, quasi timorosa di rivelare subito al lettore l’angoscia e la tensione che la sua protagonista ha vissuto per anni, quella che avvolge le pagine dell’opera di Majgull Axelsson, uno spaccato veritiero seppur romanzato di una storia il cui unico nutrimento era, ed è tutt’ora, una crudeltà senza eguali. Vittima di una ferocia imprevedibile, attraverso gli occhi, i ricordi e le parole di Miriam quei moti dell’animo umano si trasformano in raccapriccianti immagini di dolore, morte e soprusi, intervallate solo per pochi attimi da uno scintillio, reale a volte, ma per lo più illusorio, di una speranza di salvezza. In un continuo alternare passato e presente, dove il racconto dell’anziana donna alla nipote di quanto visto, sopportato e provato ai tempi della sua prigionia all’interno dei campi di concentramento diviene un buon espediente narrativo, infatti, Io non mi chiamo Miriam ripercorre con estrema lucidità una delle più grandi follie mai messe in atto, ricordandoci che non solo ebrei, ma anche zingari, testimoni di Geova, omosessuali e dissidenti politici vennero perseguitati ed infine uccisi dall’idea, malsana, che tutti dovessero appartenere all’unica razza degna di esistere, quella ariana.

Particolarmente coinvolgente dal punto di vista emotivo, il romanzo della scrittrice svedese mostra con sincera crudezza tutto ciò che qualcuno, nel tempo, ha avuto il coraggio di negare, rendendo impossibile al lettore rimanere indifferente anche alla più tenue delle emozioni. Così, un’opprimente sensazione di disagio, vergogna, inadeguatezza ed afflizione riemerge tra le pagine di Io non mi chiamo Miriam, alimentata dal’audacia di Majgull Axelsson di raccontare la storia attraverso l’innocenza di una giovane ragazza, poco più che bambina, che ha dovuto assistere, inerme, alla distruzione del suo piccolo mondo. Ma non solo, perché nel suo ricordo e nella sua denuncia, l’autrice si sofferma anche sul nostro presente, sottolineando come spesso le radici dell’antisemitismo e del razzismo nella sua concezione globale siano molto più solide di quanto ci si potrebbe aspettare.: in fondo, perché Miriam avrebbe dovuto continuare a mentire per tutta la vita se fosse stata libera di essere semplicemente se stessa? 

Con un finale capace di lasciare rabbia, sgomento e profonda tristezza negli occhi e nel cuore di chi ha attraversato, metaforicamente parlando, insieme a Malika uno dei periodi più bui della storia dell’umanità, Majgull Axelsson rimarca ancora una volta la necessità di non fermarsi e non smettere di lottare per un mondo privo di qualsivoglia discriminazione, dove essere diversi significhi cogliere dell’universo intero ogni sua piccola ricchezza.

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